La teoria marxiana applicata allo sviluppo del software: contro Toni Negri e il reddito di base universale

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Partendo da una riflessione sullo stato del lavoro, della classe lavoratrice e della sinistra nel nostro tempo, ci si interroga sul rapporto tra lavoro immateriale e teorie marxiane. Ci si chiede se oggi sia possibile delineare un confine tra lavoro e le varie forme di non-lavoro (creazione contenuti per le piattaforme, fruizione dei contenuti a scopo di profilazione, creazione di software libero a titolo gratuito/volontario, ecc...), se ci sia un tratto caratteristico che permetta di distinguere i due concetti e se abbia senso metterli sullo stesso piano. Prendendo come esempio la produzione del software (più precisamente lo sviluppo di un'ipotetica piattaforma di streaming video) vengono mostrati i limiti dei tentativi di applicare gli strumenti della teoria marxiana ortodossa. Successivamente viene presa in considerazione la teoria del plusvalore di Toni Negri. Se questa teoria ha il pregio di mostrare che oggi tutto l'assetto sociale e culturale è orientato alla suddetta estorsione, accettare che il plusvalore venga prodotto ovunque comporta conseguenze e implicazioni politiche molto pericolose. Viene confutata la teoria di Negri, mostrando come il non-lavoro non abbia intrinsecamente la capacità di generare plusvalore, e come sotto questo aspetto la teoria marxiana ortodossa si riveli ancora valida. Partendo da questa confutazione viene contestata la legittimità della proposta di Negri di un reddito di base universale. Dopo aver brevemente ripercorso la storia della concezione del lavoro come valore (dal mondo classico alla modernità), viene messa in dubbio l'idea che il reddito di base universale possa essere considerata una proposta di sinistra, mostrando la sua natura aristocratica e neo-liberale (in particolare nelle concezioni di Hayek e Friedman). Viene anche messa in dubbio l'idea che il lavoro stia scomparendo per via dell'automazione. Si ritorna quindi alla riflessione iniziale: ci si interroga sullo stato della sinistra e del lavoro alla luce dell'impegno che molti attivisti oggi stanno infondendo per far diventare realtà una proposta che storicamente nasce per opprimerli.

La sinistra al tempo dell'industria 4.0, del food-delivery, delle piattaforme e del lavoro immateriale

Scrive Engels in una nota all'edizione inglese del Manifesto:

Per borghesia si intende la classe dei capitalisti moderni, che sono proprietari dei mezzi della produzione sociale e impiegano lavoro salariato. Per proletariato si intende la classe degli operai salariati moderni, che non avendo nessun mezzo di produzione proprio, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro per vivere.

Questa divisione netta e dicotomica tra borghesi e proletari oggi non regge più.

Lo sviluppo tecnologico, l'avvento dell'era dell'informazione e dei social network hanno portato alla comparsa di figure professionali dedite al lavoro immateriale difficili da inquadrare in un'ottica di classe. In questo articolo prenderemo ad esempio la figura del software developer. Ci chiediamo: i programmatori da che parte stanno? A prima vista sembra un lavoro da privilegiati: offre stabilità, sicurezza, in certi paesi anche stipendi importanti, possibilità di carriera e realizzazione. Ha senso mettere sullo stesso piano un programmatore ed un operaio? Al compagno della vecchia guardia che fa notare che con arbeiter Marx intende l'operaio e non il lavoratore generico, aggiungendo magari: "fate poco le vittime che quei lavoretti lì col computer son robe da borghesi..." rispondiamo: "Compagno, la vera vittima qui è la sinistra. Il carnefice sei anche tu, che hai la testa parcheggiata nell'Ottocento e non accetti il divenire di tutte le cose, inclusa la concezione del lavoro...".

I project-manager da che parte stanno? Non sono capitalisti, però non sono mai dalla parte dei lavoratori. Generalmente sono di vedute liberali. E che dire di quelle situazioni dove l'imprenditore non è il capitalista? Si possono mettere sullo stesso piano una start-up di 15 persone e una grande multinazionale? Il rider di Glovo che porta le pizze si percepisce dalla stessa parte di chi la pizza poi se la mangia? La UI di Just Eat non maschera forse un rapporto di schiavitù latente? Cioè il fatto che stiamo dicendo ad una persona di venire a casa nostra per soddisfare un nostro desiderio?

E quelle forme di non-lavoro, di creazione di contenuti, di contribuzione volontaria (ad esempio il software libero e open-source)? Si possono considerare lavoro? Chi viene profilato sui social network non sta in qualche modo lavorando, visto che i suoi dati vengono venduti agli advertiser per proporre contenuti che potrebbero interessargli? Potrebbe verificarsi una situazione paradossale in cui chi si ritiene di sinistra finisca (senza rendersene minimamente conto) per difendere posizioni, idee e proposte che in realtà sono la quintessenza del pensiero liberale?

Quarant'anni di politiche neo-liberiste fondate sul mantra dell'iper-individualismo hanno contribuito pesantemente a disgregare e atomizzare la classe lavoratrice. La realizzazione non viene più cercata nell'azione pubblica e collettiva (lotta di classe), ma nella sfera privata (carriera e rapporti sentimentali). Non è tanto la politica ad essere lontana dal cittadino, piuttosto è il cittadino che ha smesso di fare politica in modo attivo e vede la politica come forma di spettacolo da circo.

La competizione tra i lavoratori è esasperata. Il lavoro è in buona parte precario e instabile. Si sente la mancanza di una forza di sinistra che possa rappresentare un riferimento e una minaccia concreta. Fanno fatica ad unirsi i partiti comunisti, figuriamoci i lavoratori. Il centro-sinistra, nella veste del Partito Democratico, è oggi l'espressione del liberismo più estremo. Approva le riforme del lavoro più vergognose, smantella lo stato sociale, erode il sistema pensionistico. I paesi periferici dell'Unione Europea sono messi in ginocchio dal cambio fisso e dalla spirale distruttiva del debito privato.

Non c'è in realtà nessun motivo materiale per pensare che non possa risorgere una sinistra forte in futuro: c'è un clima di rabbia, dissenso, malcontento, paura e incertezza. Il problema è che questo potenziale rivoluzionario viene sempre incanalato in modo da renderlo innocuo, se non reazionario. Si scende in piazza, ma i motivi sono sempre altri. Si combatte contro lo stato ladro, a favore delle libertà individuali, per l'ambiente, per i diritti delle minoranze, per la parità di genere. Va bene tutto, purché non si parli di lavoro.

L'anti-capitalismo è diventato una nicchia di mercato. Ce lo godiamo in molte serie offerte dai giganti dello streaming (Netflix, Amazon Prime Video, ecc...). Scopriamo l'acqua calda: il capitalismo è immune alle critiche. Scopriamo l'acqua bagnata: non solo è immune alle critiche, ma è capace di renderle reazionarie, monetizzabili, di fare in modo che sublimino l'impeto rivoluzionario. Gli oppressi che vediamo nelle serie distopiche siamo noi! Ma invece di rivoltarci ce ne stiamo sul divano a guardare l'ennesima Rivolta delle Macchine, l'ennesima critica superficiale ai social network, alle tecnologie che ci isolano dagli altri. In qualche modo abbiamo l'illusione di fare qualcosa, di essere attivi, ma in realtà siamo fermi davanti ad uno schermo.

Lo stereotipo del capitalista col cilindro, del borghese che tiene a dare di sé l'immagine di persona seria e affidabile, lascia il posto a quello del CEO visionario (troppo matto!) che porta innovazione tecnologica e migliora la vita a tutti. Che le innovazioni tecnologiche vengano in realtà dalla ricerca del settore pubblico (Mazzucato, 2014), che chi lavori per i suddetti visionari sia disposto a farsi maltrattare e spremere come un limone (lavorando anche fino a 90 ore a settimana) in vista di un inesistente bene superiore, che il visionario sia molto spesso un narcisista manipolatore che nei fatti opprime quell'umanità che a parole dice di voler salvare (portandola su Marte!) passa sempre in secondo piano.

Anche lo scontro tra teorie economiche è stato superato. Ai tempi di Marx (ma forse fino alla caduta del muro di Berlino) c'era una contrapposizione netta tra le teorie economiche. Siccome Marx aveva ragione sullo sfruttamento ed era il gigante da abbattere, ad intervalli più o meno regolari saltava fuori il liberista di turno (da Pareto a Nozick, per citarne un paio) che si inventava qualche sofisma da quattro soldi per screditare la teoria marxiana: Marx non calcola il rischio d'impresa, il valore è una cosa soggettiva, la teoria del valore è errata perché una torta di fango (che nessuno vuole) con tempo di lavoro di due ore vale come le altre merci, e via dicendo... Nel Novecento il pensiero liberale era minacciato concretamente dai socialismi realizzati. Bisognava tirare fuori gli artigli.

Oggi non funziona più così. O meglio, non solo. Al tradizionale modello neoclassico (che viene ancora insegnato in tutte le università) si affianca un nuovo modello di teoria reazionaria: la teoria neoclassica caramellata di rivoluzione. C'è tutta una serie di autori (esempi: Piketty, Zuboff, Larson) di studi, di articoli, di libri che criticano il capitalismo ma lo fanno da una prospettiva neoclassica più o meno camuffata da teoria marxiana. E' come se l'impianto neoclassico fosse il bastoncino e la barba di Marx fosse lo zucchero filato in cui viene immerso per poi porgerlo al bambino di turno (il lettore ignaro). Il risultato è una critica che riesce a passare per scomoda senza in realtà scomodare niente e nessuno. Questo nuovo modello è l'emblema del nostro tempo: è anti-capitalista in modo esattamente speculare alle serie distopiche descritte sopra.

Applicare la teoria marxiana cercando un isomorfismo tra l'Ottocento e il nostro tempo presenta qualche inconveniente. Nel discorso di Marx viene dato poco spazio alla sfera del consumo (al tempo il consumismo non era un fenomeno di massa). La teoria della moneta (concepita su base aristotelica come merce neutrale che succede logicamente allo scambio) è semplicemente errata (Ingham, 2016) e oggi non è adatta per capire le dinamiche dell'Eurozona. La fede nel potenziale liberatorio del progresso scientifico/tecnologico e la concezione di una scienza neutrale non trovano riscontro nella realtà fattuale (Cini et al., 1976). La fine del capitalismo dovuta alla caduta del saggio di profitto è dubbia e dibattuta (Harvey, 1982).

Anche la fabbrica non è più quella dei tempi di Marx: dalla filanda presa a modello nel volume 1 del Capitale arriviamo progressivamente alla smart factory, o fabbrica 4.0. Le macchine di oggi incorporano sensori IOT per raccogliere dati sull'usura dei componenti. Lo spauracchio dell'automazione che fa perdere (se non addirittura scomparire) il lavoro si fa strada nell'immaginario collettivo.

In questo scenario, a gran voce, comincia a farsi spazio una proposta: un reddito di base universale e incondizionato. Tra i suoi sostenitori troviamo una delle figure storiche dell'operaismo italiano: Antonio Negri. Siccome nel capitalismo cognitivo il plusvalore viene estorto ovunque ed è incalcolabile e non è più chiaro dove inizi e finisca la giornata lavorativa, secondo Negri è legittimo chiedere un reddito di base. Negli ambienti di sinistra la proposta sta prendendo piede, e molte persone si stanno attivando per concretizzarla.

Nel resto dell'articolo tenteremo di rispondere alle seguenti domande:

  • Si possono mettere sullo stesso piano il lavoro e il non-lavoro?
  • Come si possono usare le teorie marxiane (più o meno ortodosse) per descrivere la produzione del software?
  • Qual è la natura del reddito di base universale? Può essere definita come una proposta di sinistra?
  • I timori in merito all'automazione e alla scomparsa del lavoro sono giustificati?
  • Quali sono le implicazioni del discorso di Negri?

Il carattere di necessità del lavoro

Abbiamo accennato precedentemente a nuove forme di non-lavoro emerse in seguito all'avvento dell'era dell'informazione e dei social network. Viene da chiedersi se sia possibile trovare un tratto caratteristico che permetta di distinguere le due attività. In caso la risposta fosse negativa, dovremmo mettere sullo stesso piano lavoro e non-lavoro? Il non-lavoro richiederebbe quindi forme di tutela speculari a quelle del lavoro concepito in modo tradizionale? A quando un sindacato per le TikTokers, il TFR erogato dopo la cancellazione da Facebook, lo sciopero dei cancelletti su Twitter, il diritto alla pensione dopo 40 anni di contributi sotto forma di selfie su Instagram?

Vediamo quindi di capire se possa esistere o meno un tratto caratteristico che ci permetta di distinguere il lavoro dal non-lavoro.

Può essere il fatto di venire retribuiti per farlo? Dobbiamo rispondere negativamente: oggi esistono varie forme di lavoro non retribuito (stage, tirocini) che in pratica non presentano nessuna differenza con l'attività lavorativa salariata. Non-lavorare non significa necessariamente lavorare gratis. In alcuni casi poi l'attività di non-lavoro può diventare retribuita (esempio: influencer di YouTube che fanno numeri importanti e riescono a monetizzare i video del canale).

Può essere il fatto di cercare riconoscimento e realizzazione nell'attività lavorativa? Anche qui dobbiamo rispondere negativamente: oggi chi ha voglia e possibilità può cercare riconoscimento sia attraverso la carriera lavorativa che attraverso le forme di non-lavoro. Un esempio può essere offerto dal fenomeno della Vanity Press: qui è l'autore che arriva a pagare per ottenere un illusorio senso di gratificazione e riconoscimento grazie al frutto del suo non-lavoro.

Marx definisce il lavoro umano come attività finalizzata alla produzione di valori d’uso. Anche sotto questo aspetto il non-lavoro non sembra presentare grandi differenze. Perché dovremmo pensare che un video caricato su YouTube non possa avere un valore d'uso (ad esempio: intrattenimento) per qualcuno? Marx però fa notare una cosa: il lavoro è un concetto astratto. L'operaio non vende mai il suo lavoro al capitalista, bensì la sua forza-lavoro come espressione concreta. La forza-lavoro è quella merce che l'operaio è libero di vendere a qualsiasi capitalista, ma non è libero di non vendere a nessuno. Se proviamo ad applicare questo discorso al non-lavoro, vediamo che non regge: il non-lavoro non ha carattere di necessità. Se si smette di lavorare, si smette di vivere. Smettere di non-lavorare non ha particolari ripercussioni (almeno a livello di sopravvivenza materiale).

Non sembra quindi legittimo, in senso assoluto, mettere sullo stesso piano i due concetti. Questo non implica che il non-lavoro sia esente da pericoli, o che qualcuno non se ne possa approfittare in qualche modo.

Resta ora da chiarire quale sia il rapporto tra il non-lavoro e l'estorsione del plusvalore.

I limiti della teoria marxiana ortodossa e la grandezza del discorso di Negri

Vediamo ora un esempio di produzione immateriale in cui il non-lavoro si mescola al lavoro: la produzione del software. Prima di procedere riprendiamo alcuni concetti e strumenti dall'esempio della filanda di cotone che troviamo nel capitolo 7 del volume 1 del Capitale. Questo ci servirà per mostrare i limiti dell'applicazione della teoria ortodossa al lavoro immateriale.

Marx scompone il capitale C in due parti: il capitale costante c (mezzi di produzione), e il capitale variabile v (forza-lavoro):

C = c + v

Il processo di produzione consiste nel trasformare C in C', dove C' è così scomposto:

C' = c + v + p

dove p rappresenta il plusvalore. C' è quindi uguale a C + p.

Per calcolare il tasso di sfruttamento della forza-lavoro, Marx ci fornisce uno strumento: il saggio del plusvalore. Il saggio esprime (in percentuale) il rapporto tra p e v:

s = p / v

Questo rapporto esprime formalmente che per una parte della giornata il lavoratore lavora per il suo stipendio, mentre per l'altra compie un pluslavoro il cui prodotto (plusvalore) finisce ingiustamente nelle tasche del capitalista. In questo modo il capitalista si arricchisce alle spalle dell'operaio. Questa truffa è mascherata dal contratto di lavoro.

Nell'esempio della filanda di cotone è facile applicare questa formula. I filati di cotone sono blocchi materiali indipendenti tra loro. Una volta che si vende il filato prodotto comincia un nuovo ciclo di produzione. Quindi, seguendo Marx, se C' rappresenta 20 libbre di filati di cotone prodotti in una giornata e venduti a 30 scellini, e di questi 30 scellini 24 rappresentano il valore dei mezzi di produzione consumati (20 scellini di cotone + 4 di fusi) 3 il valore della forza-lavoro e 3 il plusvalore generato dal processo di produzione, possiamo sostituire le variabili c,v, e p ottenendo:

C' = 30 = c + v + p = 24 + 3 + 3

Troviamo il tasso di sfruttamento della forza-lavoro con:

s = p / v = 3 / 3 = 1 = 100%

Questo significa che per metà della giornata gli operai hanno lavorato per riprodurre la loro forza-lavoro e per l'altra metà sono stati sfruttati dal capitalista.

Se proviamo ad applicare questo discorso alla produzione del software (e in generale al lavoro immateriale) abbiamo un problema: non si riesce a calcolare il tasso di sfruttamento.

Non possiamo mettere sullo stesso piano 2000 LOC (lines of code) e 20 libbre di cotone, perché a differenza dei filati di cotone, il codice funziona solo come entità unitaria. Il codice non viene riscritto da zero ad ogni nuovo ciclo di produzione, ma si lavora (sviluppando feature o correggendo bug noti) sul software prodotto nei cicli precedenti. Inoltre, non tutto il software viene prodotto dai programmatori dell'azienda: parti del software (sistemi operativi, librerie, framework, ecc...) vengono da progetti esterni (contributi FOSS). Inoltre, nel caso delle piattaforme, parte del lavoro avviene sui contenuti creati dagli utenti (es. i video caricati su YouTube) e parte avviene sui dati ottenuti dalla profilazione degli utenti (es. ricerche su Google). Il profitto del capitalista viene dal codice scritto dagli sviluppatori, dalle librerie e dai framework, o dai contenuti creati dagli utenti? In realtà da tutto quanto, perché è il prodotto finale che conferisce ad una piattaforma un valore d'uso e la rende una merce. Dato che non riusciamo a capire quale parte del profitto venga dal capitale costante c (software FOSS, contributi degli utenti) e quale dal capitale variabile v (software scritto dai dipendenti interni all'azienda), non riusciamo neanche ad usare la formula del saggio di plusvalore vista sopra.

Questa è grosso modo la conclusione a cui arriva Toni Negri con la sua teoria dell'operaio sociale. Tutta la società è orientata alla produzione del plusvalore. Si viene sfruttati ovunque, in ogni momento. Non è più tanto il lavoro del singolo che conta: c'è piuttosto un asservimento macchinico generalizzato. Il discorso in merito al software viene poi sviluppato assieme ad Hardt in Moltitudine (2004).

Il grande merito di Negri è quello di averci ricordato una cosa: se il capitale ha capacità di adattarsi e di riconfigurarsi, allora anche la teoria marxiana deve fare altrettanto, mettendo costantemente in dubbio i suoi presupposti in vista degli inevitabili mutamenti storici. Insomma: è tutto in divenire, marxismo incluso. Partendo dal frammento sulle macchine che troviamo nei Grundrisse (1939), Negri mostra che Marx aveva già intravisto uno stadio di sviluppo del capitale in cui sarebbe stata la macchina stessa ad essere al centro della produzione:

La macchina non si presenta sotto nessun rispetto come mezzo di lavoro dell'operaio singolo. La sua differentia specifica non è affatto, come nel mezzo di lavoro, quella di mediare l'attività dell'operaio nei confronti dell'oggetto; ma anzi questa attività è posta ora in modo che è essa a mediare soltanto ormai il lavoro della macchina, la sua azione sulla materia prima...

Nella sua critica al libro Il Capitalismo della sorveglianza (Zuboff, 2017), Morozov (2019) scrive:

Se Toni Negri insegnasse alla Harvard Business School, suonerebbe come Shoshana Zuboff. Nel sondare le rovine della società industriale alla fine degli anni '70, gli italiani - meglio conosciuti attraverso il lavoro di Negri ma comprendenti molti altri pensatori interessanti - raggiunsero conclusioni molto simili alla sua. Come Zuboff, hanno visto la tecnologia dell'informazione come una forza potenzialmente liberatrice, qualcosa che avrebbe potuto aiutare a liberare le capacità cognitive e comunicative dei lavoratori dopo il loro lungo periodo di repressione sotto il regime del lavoro fisico del Taylorismo.

In realtà c'è una differenza importante: nel discorso di Negri il cardine rimane sempre il lavoro (anche se subordinato alla macchina). Quello che invece rende il libro della Zuboff innocuo, oltre al fatto di caramellare di marxismo la teoria neoclassica, è lo spostamento di focus dal lavoro alla privacy. Con buona pace di alcuni attivisti, il bisogno di privacy non ha niente di naturale o innato: la privacy, come la intendiamo oggi quando parliamo di intimità o sfera privata, nasce con la borghesia. Corrisponde all'appropriazione di uno spazio, all'acquisizione di un privilegio da parte di un gruppo sociale determinato (Rodotà, 2015). Per questo il discorso della Zuboff ha trovato spazio nel mainstream, mentre quello di Negri no.

Se da una parte dobbiamo riconoscere a Negri valore, creatività e spirito critico, dall'altra ci dobbiamo chiedere se la sua concezione del plusvalore non possa portare a derive pericolose. E' quello che cercheremo di mostrare ora. Lo scarto è tutto tra l'idea che la società intera sia orientata all'estorsione del plusvalore e l'idea che il plusvalore venga prodotto ovunque. Può sembrare una differenza sottile, ma vedremo che non è così.

La catena di montaggio del software

Torniamo allo sviluppo del software.

Vogliamo dare un contributo alla teoria marxiana mostrando come i concetti del Capitale possano essere applicati al lavoro immateriale nel nostro tempo. Mostreremo anche come si intrecciano lavoro e non-lavoro.

La formula semplice del capitale è la seguente:

D - M - D'

dove:

D = denaro iniziale, M = merci acquistate, D' = denaro ottenuto dalla vendita delle merci (somma iniziale + plusvalore)

Ricordiamo che per Marx il capitale non è una cosa (il denaro o i macchinari), ma un processo in cui un soggetto economico detto capitalista investe una somma di denaro per comprare delle merci (mezzi di produzione e forza-lavoro) in vista di ottenere indietro una somma maggiore di quella investita inizialmente.

(per "capitale" scritto con la c minuscola intendiamo questo processo, mentre per "Capitale" in corsivo con la C maiuscola intendiamo il libro di Marx)

Ricordiamo anche che la trasformazione da D a D' avviene grazie alla proprietà particolare della forza-lavoro: generare un valore maggiore del suo valore di scambio. In pratica si produce di più di quello per cui si viene pagati.

Nel volume 2 del Capitale, che parla del processo di circolazione, troviamo la formula in versione estesa. Useremo questa al posto di quella semplice, perché è più adatta a mostrare i dettagli del processo di valorizzazione. La formula estesa è questa:

D - M { Mp, Fl } - ... P ... - M' - D'

dove:

D = denaro iniziale, M = merci acquistate, Mp = mezzi di produzione, Fl = forza-lavoro, ... P ... = processo produttivo, M' = merce finita, D' = denaro ottenuto dalla vendita (somma iniziale + plusvalore)

La formula non ci dice niente di diverso dalla versione semplice, ma ci permette di dividere la produzione in fasi. L'interesse di Marx è quello di mostrare che se avviene un blocco tra le fasi della produzione (ad esempio non si riesce a trovare la forza-lavoro necessaria), può innestarsi una crisi. A noi invece interessa osservare queste fasi con la lente di ingrandimento.

Ci chiediamo: se pensiamo alla produzione del software oggi, che cosa rappresenta questa formula? In merito al software sviluppato con metodologia Agile, questa formula rappresenta quella che viene chiamata milestone, ovvero un arco temporale in cui viene prodotto un cambiamento importante. Ogni milestone è composta da sprint, ovvero dei cicli produttivi (solitamente di 2-4 settimane) in cui si sviluppano feature o correggono bug. Ad ogni feature o bug vengono assegnati degli story-point (torneremo più tardi su questa unità di misura). Per tenere traccia dello sviluppo (stato, criticità, ecc...) si usano tool come Jira o Clickup.

Ora prenderemo ad esempio la produzione di una piattaforma di streaming video (per intenderci: un clone di YouTube). Analizzeremo marxianamente due milestone distinte: lo sviluppo delle core features (accesso, registrazione, upload e streaming dei video) e lo sviluppo del circuito di advertising (raccolta dei dati degli utenti, immagazzinamento ed elaborazione, vendita agli advertiser). Semplificheremo un po' gli aspetti tecnici: il focus verrà messo sull'estorsione del plusvalore e sul rapporto tra lavoro e non-lavoro.

Associate alla nostra piattaforma di streaming possiamo identificare tre forme di non-lavoro:

  • librerie, framework, tools infrastrutturali, strumenti di sviluppo (IDE, simulatori, ecc...) e sistemi operativi FOSS (free and open source software).
  • contenuti creati dagli utenti (i video caricati sulla piattaforma).
  • dati estratti dagli utenti e venduti agli advertisers (per intenderci: quello che la Zuboff chiama surplus comportamentale).

Riprendiamo quindi la formula estesa del capitale vista sopra e complichiamola aggiungendo le varie forme di non-lavoro:

D - M { Mp (s, c, d), Fl } - ... P ... - M'{ s',c',d' } - D'

dove (aggiungendo a quanto detto nella parte precedente):

s = software base (librerie, framework, sistemi operativi), c = contenuti video appena creati, u = dati grezzi, s' = software finito (base + lavoro di programmatori e designer), c' = video resi fruibili per lo streaming, d' = dati resi fruibili agli advertiser.

Abbozziamo anche una possibile (semplicistica) struttura tecnica della piattaforma: avremo un frontend fatto in React (e librerie secondarie), un backend a micro-servizi fatto in NodeJS (e librerie secondarie), una cache in Redis, un database Mysql e uno MongoDb (a seconda di come conviene memorizzare il tipo di dati che ci interessa). La piattaforma sarà hostata su AWS. Useremo Docker per le immagini dei progetti e Kubernetes (EKS) per l'orchestrazione dei containers. I video caricati verranno salvati su un bucket S3. Il sorgente verrà salvato su GitHub. Verrà usato GitHub Actions per la creazione delle pipeline automatizzate. Lato mobile avremo una app sviluppata in React-Native (sia per Android che per iOS). Sia le app che il sito web tracceranno le azioni degli utenti per profilarli. Gli eventi relativi alle azioni verranno inseriti in un data lake su S3. Ci sarà poi una struttura analytics (RedShift + Mysql + backend in NodeJS) che servirà ad elaborare i dati grezzi e renderli fruibili sia per uso interno (analisi, meeting, KPI ecc...) che per la vendita agli advertiser.

Gli sviluppatori e i designer useranno tool di sviluppo e sistemi operativi misti tra software libero e proprietario.

Ipotizziamo anche una possibile organizzazione dei reparti aziendali (sempre semplificando moltissimo). Il reparto IT sarà diviso in sotto-reparti frontend, backend, analytics, mobile, devops e sistemi. Avremo un reparto di design, uno di vendite, uno di marketing, un reparto HR e un reparto contabilità. Ci saranno un CEO, un CTO, un COO e vari project-manager che faranno da ponte tra i vari team e il management. Supponiamo che i lavoratori siano tutti dipendenti.

Il lavoro degli sviluppatori verrà svolto da remoto. Gli altri invece lavoreranno in ufficio. Ci saranno eventi aziendali, feste e attività ricreative. Reinterpreteremo in chiave marxiana anche questi particolari.

Perché il non-lavoro non può essere messo sullo stesso piano del lavoro

Il non-lavoro può generare plusvalore?

Partiamo con la prima milestone: sviluppo delle funzionalità core. In questo lasso di tempo (indicativamente dai 3 ai 6 mesi) verranno sviluppate le funzionalità base che permettono di far funzionare la piattaforma: registrazione, login, upload dei video e streaming. Includiamo anche una forma di ricerca rudimentale (verrà perfezionata nelle milestone successive).

Sopra abbiamo definito i tipi di non-lavoro coinvolti nello sviluppo della piattaforma. A questo stadio dello sviluppo non abbiamo ovviamente ancora nessun contributo da parte dell'utente (né sotto forma di video, né sotto forma di dati). Possiamo solo appropriarci del software scritto da altri.

Supponiamo che sia stata definita l'analisi dei requisiti e che il setup base per lo sviluppo dei programmatori (sistema operativo + IDE) sia stato fatto. Dopo aver discusso con gli sviluppatori, i designer stanno mettendo su Figma un prototipo di UI per i vari progetti (app e sito). I devops stanno lavorando ai cluster EKS e alle pipeline. Gli sviluppatori si mettono al lavoro: lanciano in locale i comandi yarn o npm install sulla root dei vari repository frontend, backend e mobile. Così facendo si appropriano del non-lavoro di chi ha contribuito alle librerie (installando le varie dipendenze dei progetti).

Ora ci chiediamo una cosa: quello che abbiamo ottenuto finora può essere definito, in senso marxiano, una merce?

Qui sta il fulcro di tutto il discorso.

Per Marx una merce è tale se ha un valore d'uso e un valore di scambio (cioè se qualcuno è interessato a scambiarla con qualcos'altro). Il valore d'uso è soggettivo: ci deve essere un soggetto interessato ad usare la merce in qualche modo. Se questo soggetto esista o meno, lo scopriamo solo al momento in cui avviene lo scambio. La merce viene scambiata con un'altra merce oppure con denaro.

Riscriviamo la formula del capitale fino al punto in cui ci troviamo in questo momento:

D - M { Mp (s), Fl }

(ricordiamo che dagli utenti non possiamo avere ancora niente, quindi c e d per ora non esistono)

Ci siamo appropriati del non-lavoro di qualcuno, ma possiamo dire per ora di avere una merce in mano? Ovviamente no: nessuno ha ancora scritto una riga di codice, non esiste nessuna funzionalità core sviluppata e pertanto la piattaforma non ha nessuna utilità. Insomma: non è una merce. Solo quando saremo arrivati alla fine della milestone e avremo sviluppato le funzionalità base, gli utenti potranno potenzialmente trovare qualche interesse nell'utilizzo.

Abbiamo detto sopra che la teoria marxiana ortodossa va in crisi con il lavoro immateriale, perché il saggio del plusvalore è incalcolabile: non si riesce a separare il capitale costante c dal capitale variabile v. In realtà questo non è sempre vero. Riscriviamo la formula del saggio del plusvalore:

s = p / v

Quanto vale p allo stadio attuale? Zero. Se p = 0, allora sia p / v che p / (c + v) varranno sempre 0, per c e v > 0. Se s = 0, non possiamo dire che qualcuno sia stato sfruttato.

Andiamo avanti con la milestone: parte la produzione del software. Gli sviluppatori scrivono il codice e i test, i designer rifiniscono la UI, i project-manager stanno addosso agli sviluppatori con richieste assurde, i devops sistemano le pipeline, creano i deployment, i service, installano l'ingress e i certificati sui cluster. Il tutto corredato da meeting inutili della durata di qualche ora, litigi, incomprensioni e tensioni varie (inclusi mobbing, molestie, ecc...). In termini marxiani questo si esprime con:

... P ...

Un po' riduzionista, verrebbe da dire.

Alla fine si arriva al parto: la piattaforma (in versione beta) è pronta e gli utenti possono accedere. Nella formula del capitale questa fase corrisponde alla parte:

- M'{ s'}

Cosa rappresenta s' nella formula? Rappresenta il software lavorato e pronto per l'uso. Come ha fatto s (il software base) a trasformarsi in s'? Grazie alla forza-lavoro dei vari team coinvolti (sviluppatori, designer, manager).

A questo punto si palesa il limite della teoria ortodossa: in s' non si può più separare c da v: React non serve a niente senza i componenti sviluppati, ma i componenti sviluppati senza l'import di React non funzionano. Pertanto non riusciamo più a valorizzare v e a calcolare il saggio del plusvalore.

Dovrebbe essere chiaro ora a quale conclusione stiamo per arrivare, ma a scanso di equivoci ci chiediamo: se avessimo lasciato al sole il laptop con React e le altre librerie e fossimo andati a prenderci una birra o una coca, al ritorno avremmo trovato la nostra piattaforma di streaming germogliata per magia? Certo che no!

Solo la forza-lavoro può generare valore (e di conseguenza plusvalore) cristallizzato nelle merci prodotte. Sotto questo aspetto non possiamo seguire interamente il discorso di Negri.

Esiste un asservimento macchinico generalizzato perché anche i contributi FOSS hanno avuto il loro peso nella produzione, ma da soli non hanno nessuna capacità intrinseca di produrre valore. Il plusvalore si può creare solo nella fase di produzione grazie alla forza-lavoro, come afferma la teoria marxiana ortodossa.

Rimane fuori una parte della formula del capitale:

- D'

Questa parte rappresenta la somma iniziale investita più il plusvalore. Se seguiamo il modello di business di YouTube, dovremmo avere una versione free con gli ads, e una versione premium più veloce e senza ads. In questa fase però la nostra attività non è ancora monetizzabile, perché non stiamo ancora profilando gli utenti e nessuno ha ancora caricato i video. Se ora noi offriamo il nostro prodotto gratis agli utenti, è perché in cambio vogliamo i loro dati e i loro contenuti. Quindi, per questa specifica milestone, l'ultimo anello della catena del valore non sarà - D' ma:

- M { c , d }

dove, ripetiamo, c e d rappresentano i contenuti e i dati degli utenti. Quindi: per ora non otteniamo denaro da nessuno, bensì dati e contenuti. Solo alla fine della prossima milestone la nostra attività diventerà monetizzabile.

Passiamo ora alla seconda milestone: sviluppo del circuito di advertising. Lo scopo è di rendere monetizzabile la piattaforma, grazie alle inserzioni pubblicitarie. Per farlo è necessario profilare gli utenti, raccogliendo i loro dati e tracciando le loro attività. Bisogna quindi sviluppare un'architettura software che permetta di lavorare sui dati ottenuti al fine di renderli leggibili. Riscriviamo per l'ennesima volta la formula estesa del capitale:

D - M { Mp (s, c, d), Fl } - ... P ... - M'{ s',c',d' } - D'

In questa milestone dobbiamo realizzare la trasformazione da d a d', cioè dobbiamo compiere un lavoro sui dati degli utenti. Allo stato attuale la piattaforma non ha nessun valore per gli inserzionisti, perché le azioni degli utenti non vengono profilate da nessuna parte e pertanto non sono consultabili in nessun modo. In questa milestone il processo produttivo ( ... P ... ) consisterà nel creare l'architettura software che permetta di consultarli. Nel codice sorgente delle app e del frontend della piattaforma dovremo inserire degli eventi associati a tutte le operazioni rilevanti (esempi: ricerca e visione dei video). Gli eventi invieranno i dati ad un data lake su S3. Per interrogare S3 useremo Redshift e gli altri servizi forniti da AWS (da SageMaker a RDS) e faremo in modo che le varie API possano interagire con i servizi, a seconda di quello che vorremo fare con i dati (uso interno o vendita a terzi). Quello che uscirà da questo processo è rappresentato nella formula da d' .

Per quanto riguarda la trasformazione da c a c', il lavoro è già stato effettuato nella prima milestone: gli utenti stanno già caricando i video sulla piattaforma. La differenza tra c (il video creato dall'utente) e c' (il video reso accessibile sulla piattaforma) è che c non è una merce, mentre c' sì. Finché l'utente si limita a registrare un video e ad editarlo per renderlo presentabile, nessuno può accedervi. Pertanto il video non ha un valore d'uso. Solo una volta caricato sulla piattaforma il video diventa fruibile. Ma per fare in modo che questo sia possibile, c'è bisogno del lavoro di qualcuno.

Alla fine del processo produttivo, arriviamo finalmente a:

M'{ s',c',d' }

Adesso possiamo dire che la merce ottenuta (lavoro sul software + lavoro sui contenuti + lavoro sui dati) è scambiabile con una somma di denaro (seguiamo il modello di business di YouTube). Quindi, per questa milestone e per le successive, l'ultimo anello della catena diventa effettivamente - D'.

Con questo discorso volevamo dimostrare che il plusvalore non viene generato ovunque, ma solo nella fase di produzione e grazie alla forza-lavoro (benché sia vero che tutta la società contribuisca in un modo o nell'altro alla sua creazione). Potrebbe sembrare una sottigliezza o una questione di lana caprina. Vedremo più tardi che non è affatto così, e che la concezione olistica del plusvalore comporta implicazioni pericolosissime.

Ora ci chiediamo un'altra cosa: qual è il limite dei marxismi (ortodossi ed eterodossi) applicati al lavoro immateriale? C'è qualcosa che non si riesce a vedere con questi strumenti?

Gli sviluppatori, gli operai e le rivolte

Fino a che punto si può mettere sullo stesso piano il lavoro di uno sviluppatore con quello di un operaio? Fino a dove non risulta una forzatura? Si arriva prima o poi ad un vicolo cieco? Cercheremo ora di rispondere a queste domande.

In Moltitudine (2004) Negri e Hardt prendono le distanze dalla legge del valore che troviamo in Smith, Ricardo e Marx. Gli autori affermano che l'unità temporale del lavoro, in quanto misura fondamentale del valore, oggi non ha più alcun senso. Il lavoro è ancora la fonte del valore, ma è necessario capire con quale tipo di lavoro si ha a che fare e quali sono le sue temporalità. L'esempio che viene preso a modello è quello dei dipendenti Microsoft:

Nel regno del lavoro immateriale, il ritmo regolare della produzione di fabbrica - con la sua netta suddivisione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro - è pressoché scomparso. Pensiamo soltanto al modo in cui le aziende come Microsoft cerchino di far assomigliare l'ufficio all'ambiente di casa, con l'offerta di pasti gratuiti e con l'applicazione di programmi per trattenere gli impiegati sul posto di lavoro sino ai limiti della lucidità.

Se però andiamo ad analizzare gli aspetti tecnici dello sviluppo del software, ci accorgiamo che questo discorso non regge. Abbiamo detto che nello sviluppo con metodologia Agile ogni milestone è suddivisa in sprint. Gli sprint sono delle iterazioni della durata di 2-4 settimane dove si implementano feature e si sistemano bug. Alla fine di ogni sprint avvengono la review dei task svolti e il planning per lo sprint successivo. Quando si pianifica uno sprint, si assegnano degli story-point ad ogni feature da sviluppare. A cosa corrispondono gli story-point? A una stima approssimativa del tempo di lavoro necessario per sviluppare la feature. Non c'è una regola fissa: uno story-point potrebbe equivalere a 2 ore di tempo, ma anche di più. Diciamo che è una convenzione arbitraria. I tool come Jira o ClickUp servono anche a monitorare che lo sviluppo non sfori i tempi previsti.

L'utilizzo dello story-point come misura approssimativa ci mostra il carattere di novità del lavoro immateriale: si fa fatica a quantificare il tempo di lavoro con precisione, nonostante il tempo sia ancora la misura fondamentale.

Non si può dire ad un programmatore di scrivere 200 LOC ogni ora: distruggerebbe la sua creatività. A volte servono ore per scrivere una riga decisiva a sistemare un bug, a volte bastano pochi minuti per scriverne delle decine. I project-manager tentano in vari modi di fare pressione sui developer per accorciare i tempi di sviluppo, perché se i developer finiscono in anticipo di sviluppare le feature dello sprint corrente, si può allocare il tempo rimasto correggendo altri bug o iniziando a lavorare su feature extra.

Riguardo alla durata della giornata lavorativa e alle attività ricreative, facciamo notare che la cultura aziendale del work-hard / play-hard può essere descritta anche con gli strumenti della teoria ortodossa. Marx identifica due modi in cui il capitalista può accrescere l'estorsione del plusvalore. Il primo modo è detto plusvalore assoluto, e consiste nell'aumento della giornata lavorativa. Le death-marches di 90 ore settimanali in Apple e SpaceX, nelle quali gli impiegati lavorano giorno e notte a consegne e scadenze importanti in vista di un bene superiore (il progresso dell'umanità) sono un ottimo esempio. Il secondo modo è detto plusvalore relativo, e consiste nell'aumento della produttività. Feste aziendali, aperitivi con i colleghi, corsi di formazione pagati, gite e attività sportive di gruppo non sono altro che questo: tentativi di rendere le persone più produttive aumentando la coesione sociale. Anche i bossware (strumenti tech atti a monitorare e sorvegliare il lavoratore) sono un esempio valido. In questo caso però preferiamo seguire Negri e Hardt, perché l'intuizione che l'ufficio assomigli sempre più alla casa (e il gruppo di colleghi sempre più alla famiglia) è lucida e calzante. Nel momento in cui si finisce per frequentare i colleghi anche al di fuori dell'orario lavorativo, la sfumatura tra lavoro e tempo libero diventa praticamente indistinguibile.

Eppure c'è un concetto cardine del pensiero di Marx che, se applicato alla realtà dei lavori creativi, ci fa sbattere contro un muro: il concetto di alienazione.

Se pensiamo al lavoro materiale oggi, dobbiamo dire che i quattro tipi di alienazione descritti nei Manoscritti economico-filosofici (Marx, 1932) sono ancora presenti. Con il lavoro immateriale il discorso funziona e non funziona. I lavori creativi mantengono un carattere di artigianalità anche se svolti come lavoro salariato per conto del capitalista. Anche nelle aziende di grandi dimensioni, in cui l'intero processo produttivo sfugge alla visione del singolo lavoratore (e può capitare di sviluppare feature senza che sia chiaro a cosa serviranno di preciso), i task non sono mai veramente ripetitivi come quelli dell'operaio in catena di montaggio. C'è sempre qualcosa da imparare, qualcosa di interessante da scoprire (ammesso che se ne abbia voglia).

L'avvento del lavoro da remoto ha reso evidente qualcosa che prima poteva essere percepito solo in modo latente: il lavoro immateriale non è pesante tanto per i ritmi di lavoro o per le attività in sé. Quello che lo rende pesante è il fatto di dover stare chiusi in un ufficio, di non potersi alzare a piacimento, di non potersi sdraiare a riposare quando si è stanchi, di dover frequentare tutto il giorno persone che non abbiamo scelto o che non ci interessano. Fenomeni come il mobbing o le molestie non sono inquadrabili in un'ottica di estorsione del plusvalore, perché creano un clima di tensione, angoscia e malcontento che impatta negativamente sulla produttività. L'imprenditore più intelligente (in senso capitalistico) è quello che tratta bene i suoi dipendenti, che li ascolta e li valorizza a tempo debito.

Con buona pace dei critici del lavoro da remoto: i lavoratori oggi non sono isolati perché non si incontrano fisicamente (sono nati sindacati come Smart Workers Union proprio per difendere il diritto a lavorare da remoto), ma per tutti i motivi elencati all'inizio dell'articolo che rendono la classe lavoratrice disgregata. In barba a tutti i comunitaristi e a tutti gli individualisti: la vita è fatta di rapporti. Lavorare da remoto neutralizza le relazioni tossiche (non solo con il capo, ma anche con certi colleghi invadenti e prevaricatori), permette di svincolarsi dalle quattro mura dell'ufficio e anche da quelle di casa (passando la giornata in un parco o in un bosco con portatile e connessione mobile), permette di gestire il tempo di lavoro come si vuole: basta che le feature siano pronte nei tempi prestabiliti. Falsa è l'idea che il lavoro da remoto faccia svanire il confine tra lavoro e spazio privato, come falsa è l'idea che si finisca per lavorare più tempo del necessario. Chi faceva le ore piccole per scappare da sé stesso lo faceva anche in ufficio. In realtà lo smart working permette di ridurre la durata della giornata lavorativa, trasformando i tempi morti in tempo libero e allentando il controllo sul lavoratore. Contro lo smart working (Balzano, 2021) è un libro che non tiene conto dei desideri dei diretti interessati e descrive situazioni che non trovano nessun riscontro nella realtà fattuale. Le proteste contro i rientri forzati sono più che legittime, perché il lavoro da remoto migliora la qualità della vita.

Il marxismo finisce dove inizia la felicità del salariato.

Stiamo applicando ad un gruppo di privilegiati una teoria che era nata per difendere gli ultimi e gli oppressi. Chi sta bene materialmente non ha motivo di ribellarsi. La maggior parte dei lavori diventa sempre più precaria e instabile. Gli operai di Foxconn se la passano molto peggio di quelli descritti da Marx nel Capitale. Un gruppo di operai che sciopera mette su un piatto la propria esistenza, e sull'altro niente. La bilancia pende da una parte e la spinta ad unirsi e reagire ai soprusi è forte. Nel lavoro immateriale sull'altro piatto si mettono carriera e prospettive di crescita all'interno dell'azienda. Lavorare come sviluppatore per un'azienda importante è visto come un'ambizione ed un traguardo da raggiungere. E' anche difficile entrare, per via della difficoltà dei colloqui e della concorrenza. La spinta all'individualismo è quindi spesso più forte di quella a fare gruppo. Nessuno si espone per aiutare gli altri in momenti di difficoltà. Naturalmente questa condizione è prodotta dal momento storico e può cambiare, ma in pratica la realtà è questa. Chi studia informatica all'università e nel piano di studi ha corsi di economia, impara la teoria neoclassica e ragiona di conseguenza (nessun corso di microeconomia spiega che quella è solo una delle teorie economiche). Finché i maestri sono Varian e Shapiro, la rivolta è soffocata sul nascere.

Il ruolo dei tech worker non sarà mai quello di protagonisti della rivolta. Sarà, invece, un ruolo di supporto a chi la rivolta ha un motivo materiale per farla: operai, magazzinieri, rider, insegnanti, addetti alla mensa e alle pulizie, ecc...

Quali limiti ha l'analisi marxiana?

Da una prospettiva heideggeriana (critica del pensiero calcolante) non c'è poi molta differenza tra la teoria marxiana e le altre teorie economiche: quando scriviamo D - M - D' oppure p / v, stiamo riducendo le persone ad oggetti di calcolo. Così facendo ci perdiamo un'immensità di sfumature. C'è tutto un microcosmo relazionale, una molecolarità, una serie di flussi desideranti che il marxismo ortodosso non permette di vedere. Una storia d'amore tra colleghi si può ridurre ad un aumento relativo di plusvalore? Nel saggio L'invenzione dell'economia (2005) Latouche riprende quella critica da sinistra al marxismo abbozzata da Foucault ne Le parole e le cose (1966). Foucault tentava di mostrare che, a dispetto della sua portata rivoluzionaria, il marxismo non aveva inciso nessun taglio nella cultura occidentale, perché non aveva cambiato i presupposti del discorso economico. Dalla prospettiva di Foucault, Ricardo era stato molto più rivoluzionario di Marx, perché era lui e non Smith ad essere il vero pioniere della teoria del valore-lavoro (in Smith è solo accennata). Latouche raddoppia il carico mostrando che il marxismo rimane nel campo semantico dell'economia e non è compatibile con l'ottica della decrescita. Il sogno di una giornata lavorativa di quattro ore, e del tempo libero restante speso a coltivare interessi artistici, scientifici e intellettuali, è un sogno borghese (viene dagli utopisti del Settecento) che il marxismo ha fatto proprio. In Mille piani (Deleuze e Guattari, 1980) ci si chiede cosa sia la sinistra. Gli autori rispondono: un divenire creativo e minoritario. Il marxismo non è poi così di sinistra, perché si rivolge alla maggioranza (l'operaio bianco maschio over 35). Oggi a chi si rivolge il marxismo? Si può ancora considerare estremo il discorso marxiano? Lasciamo aperte queste domande.

La natura del reddito di base universale

L'autore più citato nel volume 1 del Capitale è Aristotele. Nel primo capitolo Marx parte dalla lettura de La Politica, riconoscendo il valore dell'analisi dello stagirita. Ne riconosce però anche i limiti: Aristotele non avrebbe mai potuto teorizzare il nesso tra valore e lavoro, poiché nel mondo greco (e nel mondo classico in generale) la schiavitù era socialmente accettata. In generale, nel mondo classico il lavoro non veniva percepito come un valore. Veniva invece esaltato l'ozio (otium) come attività contrapposta al negozio (negotium). Le parole di Virgilio sembrano particolarmente rappresentative:

I Greci nell’epoca del loro splendore non avevano che disprezzo per il lavoro, solo agli schiavi era permesso di lavorare: l’uomo libero conosceva esclusivamente gli esercizi ginnici e i giochi dello spirito. Era questa l’epoca in cui si viveva e si respirava in mezzo a un popolo di Aristoteli, di Fidia, di Aristofani; erano questi i tempi in cui un pugno di valorosi travolgeva a Maratona le orde di quell’Asia che di lì a non molto Alessandro avrebbe conquistato. I filosofi dell’antichità insegnavano il disprezzo per il lavoro, degradazione dell’uomo libero; i poeti cantavano l’ozio, dono degli dèi: «O Meliboee, deus nobis haec otia fecit» («O Melibeo, quest’ozio è il dono di un dio»)

Sempre seguendo la ricostruzione di Latouche (2015), il lavoro diventa un valore grazie all'etica protestante e alla borghesia, quando quest'ultima non era ancora il gruppo dominante. I borghesi rinfacciavano agli aristocratici di essere dei fannulloni e dei parassiti, auto-attribuendosi il ruolo di produttori del benessere collettivo. Siccome il lavoro lo facevano loro, era legittimo il diritto alla ricchezza e al potere. A dire il vero il lavoro manuale non lo facevano veramente i borghesi, bensì i contadini e i manovali, che però solidarizzavano con loro. La retorica dell'homo faber maschera l'alienazione e il lavoro salariato. Quando la borghesia diventa il gruppo dominante, il proletariato assorbe e rielabora la concezione del lavoro come valore, rivendicando (giustamente) il suo ruolo di creatore del valore collettivo. Non a caso troviamo la teoria del valore-lavoro (sebbene in forme diverse) sia in autori borghesi (Smith, Ricardo), sia nella teoria marxiana.

Possiamo affermare quindi che, storicamente, vivere senza lavorare è sempre stata una prerogativa degli aristocratici. Non compare mai un elogio dell'ozio totale né in Marx, né negli economisti borghesi. Essendo noi più o meno involontariamente cristiani (che ci piaccia o no), non possiamo accettare l'ozio fondato sulla schiavitù altrui. L'ideale sarebbe quindi trovare un compromesso tra passare la giornata a lavorare e vivere da parassiti grazie al lavoro altrui.

Viene quindi da chiedersi: tutti quei compagni, quegli attivisti e quei militanti che vedono nel reddito di base universale uno strumento di emancipazione dal lavoro salariato, che si stanno attivando per far diventare la proposta una realtà, si rendono esattamente conto di quello che stanno facendo?

Qual è l'origine ideologica del reddito di base universale?

Chi cerca un parallelo tra la proposta attuale e discorsi di autori esistiti nell'antichità o nel medioevo commette l'errore di separare un concetto dal contesto culturale in cui è stato partorito. Falsa è l'idea che in Platone, Pericle o Aristotele possano rintracciarsi abbozzi di una proposta di proto-reddito universale. Abbiamo visto che il mondo classico era fondato sul lavoro schiavistico. Lo stesso discorso vale per l'Utopia di Thomas More o il discorso di Thomas Paine, perché le loro società (immaginarie o meno) erano fondate sul lavoro agricolo. Nel modello di More si lavora nei campi per 6 ore al giorno.

Il padre del reddito di base universale (come viene concepito oggi) è Milton Friedman.

Lo troviamo nel capitolo 12 di Capitalismo e Libertà (Friedman, 1962) con il nome di imposta negativa sul reddito. E' una proposta subdola che va vista nell'ottica in cui la concepisce Friedman: lo smantellamento del welfare-state. Le politiche di Reagan e della Thatcher negli anni'80 (riduzione della spesa pubblica, tassazione flat, controllo dell'offerta monetaria e distruzione dei diritti del lavoratore) sono basate in buona parte su quanto scritto nel libro di Friedman.

Friedman sembra avere una concezione parmenidea della povertà: il povero è povero, il non-povero non è povero. Il povero è povero e non può non esserlo, perciò bisogna fargli l'elemosina per evitare che si ribelli. Di questo si tratta: elemosina e nient'altro. Friedman nega il divenire poveri per via delle dinamiche del capitalismo, e nega anche il divenire non-poveri grazie all'intervento dello Stato. Anche in Hayek (il padre spirituale dei Trattati Europei) troviamo una proposta simile. Serve, secondo Hayek, qualche forma di aiuto per chi versa nella povertà estrema o nella fame, anche solo nell'interesse di coloro che devono essere protetti dai gesti di disperazione dei bisognosi.

Quando Philippe Van Parijs (2017) afferma che il lavoro non c’è o è povero, [pertanto] serve il reddito di base, sta parlando per bocca di Friedman. Nella sua analisi (e in realtà in tutte le analisi dei sostenitori della proposta) la disoccupazione non è un problema da risolvere, ma una base da cui partire. Parijs risponde all'obiezione di chi vede il reddito di base come uno strumento per incentivare la pigrizia, argomentando che un reddito di base incondizionato aumenterebbe l’incentivo materiale a lavorare. Secondo lui il lavoratore diventerebbe meno ricattabile e meno disposto ad accettare condizioni di lavoro infime, pertanto il datore di lavoro sarebbe costretto a venirgli incontro offrendo condizioni migliori. In realtà, dietro la promessa illusoria di condizioni migliori si nasconde la forzata accettazione di quelle attuali (precariato e stipendi bassi).

Cosa ha causato il divenire-poveri all'interno dell'Unione Europea?

Il ciclo di Frenkel (dal nome dell'economista Roberto Frenkel) descrive un modello a step in cui un'unione monetaria tra un'economia matura e una più arretrata finisce per avere esiti disastrosi. E' esattamente quello che è successo in Europa in relazione a Germania (o meglio, ai capitalisti tedeschi) e paesi periferici dell'Eurozona (Italia compresa). La funzione dell'Euro era ed è tuttora quella di proteggere l'investimento dei capitalisti tedeschi impedendo eventuali svalutazioni. Riportiamo qui i sette passaggi del ciclo:

  1. Il Paese (per esempio l'Italia), accedendo all'unione monetaria, liberalizza i movimenti di capitale.
  2. Affluiscono capitali esteri, che trovano conveniente investire in un Paese dove i tassi di interesse permangono più alti, ma si è ridotto o è stato eliminato il rischio di cambio.
  3. Il flusso di liquidità fa crescere consumi e investimenti, quindi crescono prodotto interno lordo e occupazione.
  4. Tuttavia aumentano anche l'inflazione e il debito privato; l'inflazione causa una progressiva perdita di competitività in mancanza di una svalutazione della valuta, a causa del cambio fisso, e un deficit crescente nella bilancia dei pagamenti e nelle partite correnti del Paese. Si creano inoltre bolle azionarie e immobiliari.
  5. Un evento casuale crea panico tra gli investitori stranieri, che arrestano i finanziamenti e chiedono un ritorno immediato del credito concesso.
  6. Inizia la crisi: si innesca un circolo vizioso tra fallimenti di aziende, aumento della disoccupazione, calo del Pil e aumento del debito pubblico. Il governo taglia la spesa pubblica e/o aumenta le tasse, aggravando la recessione.
  7. Il Paese è costretto ad abbandonare il cambio fisso e a svalutare.

L'evento casuale dello step 5 è il riflusso della crisi del 2008. Da più di un decennio ci troviamo allo step 6: le manovre dei vari governi tecnici (da Monti in avanti) e le vergognose riforme del lavoro approvate dal centro-sinistra sono espressione di quei tagli fatti passare come necessari a ripagare il debito contratto.

Purtroppo in Italia ha trionfato la retorica liberista dello Stato ladro, della Casta, della corruzione, della spesa pubblica improduttiva, del cittadino italiano come soggetto intrinsecamente abietto e immorale. Come possono essere questi i motivi della recessione? Come avrà fatto allora la rispettabile e pulita Finlandia ad andare in crisi? Tutti corrotti anche lì? Guarda caso la Finlandia è l'unico paese scandinavo ad essere entrato nell'unione monetaria.

In Francia e in Italia questa storia è stata raccontata magistralmente dagli economisti Jacques Sapir e Alberto Bagnai. Purtroppo però, nessuno dei due ha ricevuto ascolto da parte dei partiti di sinistra. Hanno così finito per rivolgersi alle destre nazionaliste, che hanno strumentalizzato il dibattito sull'Euro per prendere voti (salvo poi dimenticarsene una volta al governo).

Oltre alla retorica liberista, ad aver trionfato in tutta Europa (ma forse in tutto l'Occidente) è il ragionamento per Curve da Stadio. Siccome la critica all'Euro è stata portata avanti principalmente da partiti di destra, dichiarandosi euroscettici ci si espone al rischio di essere identificati come fascisti da parte dei vari tifosi collocati in prossimità della Curva Sinistra. Che il clima di incertezza (alimentato proprio dalle dinamiche descritte sopra) abbia creato un terreno fertile per l'ascesa dei nazionalismi in tutta Europa, è un dettaglio che a molti antifascisti sembra non interessare particolarmente: l'importante è trovare qualcuno contro cui puntare il dito.

Complici la pandemia COVID-19 e la fiducia accordata al governo Draghi (con annessa accettazione di irreversibilità dell'Euro proprio da chi ci aveva raccontato questa storia in modo così lucido), il dibattito sull'Euro sembra trovarsi su un binario morto. Non c'è attualmente una forza politica in grado di poter fare qualcosa per sbloccare la situazione. Ma l'Euro è ancora lì, con tutte le sue implicazioni.

Va detto che la teoria marxiana non fornisce gli strumenti base per comprendere la natura del problema Euro. Come mostrato nel saggio La natura della moneta (Ingham, 2016), anche Marx finisce per concepire la moneta come merce neutrale succedente allo scambio, proprio perché parte dall'analisi di Aristotele. E' molto più accorto Weber quando riconosce il ruolo dell'autorità nel fare sì che la moneta sia moneta, smascherandone il carattere di neutralità e conferendole una dimensione sociale. Seguendo solamente Marx non è possibile comprendere a pieno che l'Euro non è una moneta, ma un sistema di governo.

Questo è lo scenario su cui si erge la proposta del reddito di base universale, come al solito previsto con largo anticipo da Bagnai (2015) assieme ad altri autori (Il Pedante, 2015).

Il reddito di base universale è una proposta di matrice neo-liberista. Chi ha firmato la petizione, vedendo in essa una qualche forma di emancipazione, è un liberista a propria insaputa.

Viene nuovamente da chiedersi: tutti quei compagni, quegli attivisti e quei militanti che vedono nel reddito di base uno strumento indispensabile per uscire dalla povertà e dalla miseria, si rendono conto di quello che stanno sostenendo?

Il fatto che buona parte della grande imprenditoria della Silicon Valley (Musk, Bezos, Zuckemberg, Gates e altri) sia a favore del reddito di base, dovrebbe far suonare un campanello d'allarme. Su tutte, è emblematica l'analisi dell'imprenditore e divulgatore Federico Pistono, favorevole al reddito di base ed autore del best-seller I robot ti ruberanno il lavoro, ma va bene così: come sopravvivere al collasso economico ed essere felici (Pistono, 2013). La proposta del reddito di base si accompagna spesso ad un luogo comune ripetuto ossessivamente nel nostro tempo: il lavoro scomparirà per via dell'automazione.

Pistono riscrive tutta la storia dell'industria degli ultimi 200 anni (dai luddisti al nostro tempo) come storia della lotta tra il lavoratore e la macchina che gli ruba il lavoro. Una sorta di legge esponenziale ce lo mostra inequivocabilmente: i robot sono destinati a rimpiazzare progressivamente tutte le mansioni svolte dall'uomo. Ad un certo punto i robot diventeranno talmente intelligenti che non riusciremo più a capire che cosa stiano facendo.

Decisamente più interessante è la recensione critica del libro da parte di Piero Scaruffi (2012, per l'edizione inglese), che svela la debolezza delle argomentazioni di Pistono. Scaruffi mostra infatti che è ingenuo attribuire al progresso tecnologico la causa di fenomeni (disoccupazione, precariato, incertezza) che hanno natura sociale e politica (reaganomics / thatcherismo) e confuta l'assunto che la crescita esponenziale sia appropriata per descrivere la nostra era:

L'espressione "crescita esponenziale" è spesso usata per descrivere la nostra epoca. Il problema è che è stata usata per descrivere qualsiasi epoca dall'invenzione degli esponenziali. In ogni epoca, ci sono cose che crescono in modo esponenziale, mentre altre no. Ogni innovazione tecnologica ha raggiunto un momento in cui si è diffusa esponenzialmente, che fossero le campane delle chiese o i mulini a vento, gli occhiali da lettura o i motori a vapore

Viene mostrata anche la parzialità dei dati. Infatti l'analisi è ristretta al mercato statunitense. Fa notare Scaruffi che se General Motors licenzia 1000 persone in Michigan e ne assume 2000 in Cina, non è corretto limitarsi a dire che 1000 persone hanno perso il lavoro.

Ma gli studi sul rapporto tra automazione e disoccupazione cosa dicono? Vediamo ora tre studi costruiti sul modello neoclassico e commentiamoli da una prospettiva marxiana.

Uno studio (McKinsey Global Institute, 2017) afferma che in media circa il 15% delle attività lavorative rischia di venire rimpiazzata dall'automazione entro il 2030. Le attività completamente automatizzabili sono però meno del 5%. Più frequente è il caso in cui solo alcune mansioni verranno automatizzate: l'automazione affiancherà il lavoratore piuttosto che sostituirlo. L'impatto sarà maggiore sui lavori ripetitivi e meno qualificati (produzione industriale, meccanica, preparazione del cibo, elaborazione delle buste paga), tuttavia è previsto un aumento dell'occupazione in altri settori (informatica, management, insegnamento).

Un altro studio (Acemoglu e Restrepo, 2020) mostra una correlazione tra disoccupazione e automazione in alcuni settori (manifattura, industria automobilistica). Secondo le stime dello studio, per ogni nuovo robot inserito si riduce l'impiego di 3 lavoratori. Fa notare Acemoglu che il problema in merito alla perdita di lavoro è relativo alle cosiddette so-so technologies, cioè quelle tecnologie che rimpiazzano l'uomo ma non migliorano più di tanto la produttività (esempio: le casse automatizzate dei supermercati). Non essendoci un incremento di produttività, viene meno la relativa domanda di forza-lavoro extra. Acemoglu nota anche che i numeri non sono catastrofici: finora l'impatto sul mercato statunitense è stato dello 0.2% (circa 400.000 lavoratori).

Un terzo studio (Caselli et al., 2021) prende a riferimento il mercato italiano dal 2011 al 2018 mostrando che l’introduzione di robot industriali non avrebbe prodotto effetti negativi sul tasso di occupazione, anzi avrebbe contribuito alla riduzione del tasso di disoccupazione. Il risultato dell’indagine mette in luce importanti differenze legate alle mansioni dei lavoratori. I posti di lavoro riservati a tutte quelle figure professionali che, a diversi livelli, si occupano della programmazione, dell’installazione e della manutenzione dei robot, sarebbero aumentati di circa il 50% in poco meno di dieci anni, con un aumento significativamente maggiore nelle aree caratterizzate da un ricorso più intenso ai robot industriali.

Dicevamo: questi studi sono costruiti sul modello neoclassico. Isolando il mercato dalla società vengono rimosse tante implicazioni a livello politico che hanno un peso significativo su grado e qualità dell'occupazione. Il primo studio segue un approccio micro-to-macro secondo il quale la società viene vista come un aggregato di mercati singoli: non si riesce quindi a vedere come un mercato reagirà in risposta ai cambiamenti degli altri. E' intriso di fede nell'equilibrio di mercato e nella collaborazione tra settore pubblico e privato nel processo di riqualificazione dei lavoratori coinvolti. Prendendo invece l'ultimo studio citato: ha senso dire che l'introduzione di robot industriali non impatta l'occupazione, se per via di congiunture economiche più grandi (cambio fisso, austerity e riforme del lavoro) sarebbe stato comunque difficile trovare un impiego? Da una prospettiva marxiana possiamo seguire la teoria dell'esercito industriale di riserva secondo la quale, a seguito di un incremento tecnologico, si crea una sacca di disoccupati che fa abbassare il costo della forza-lavoro. Pertanto una collaborazione tra pubblico e privato in un'ottica di riqualificazione sembra dubbia: c'è un palese conflitto di interessi. Aggiungiamo anche che difficilmente un operaio di quarant'anni diventerà ingegnere nell'arco di un semestre. L'idea che i robot rubino il lavoro alle persone non va confusa con la teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto (secondo la quale il capitalista è portato ad investire sempre più in macchinari e sempre meno in forza-lavoro) perché non è la macchina in sé, ma l'uso capitalistico della macchina a causare la sostituzione (è anche una critica che Marx muoveva ai luddisti). Tuttavia sarebbe errato utilizzare esclusivamente la suddetta teoria per spiegare la disoccupazione (come fanno alcuni marxisti). Non possiamo che appoggiare la critica di David Harvey ai cosiddetti monomaniaci della caduta tendenziale.

In tutte le precedenti rivoluzioni industriali, il capitale si è sempre riconfigurato causando la perdita di posti di lavoro. Non sembra quindi si possa dire che stia accadendo qualcosa di nuovo con l'industria 4.0. Finora non c'è nessuna prova tangibile che il lavoro stia scomparendo. Non tutte le mansioni possono essere automatizzate, il progresso tecnologico crea (sebbene in misura ridotta) nuovi tipi di lavoro (esempio: la figura dell' IOT Developer) e, al netto dei progressi di AI e neuroscienze, nessuno sa ancora oggi dire cosa significhi pensare. La completa sostituibilità dell'uomo nel processo lavorativo risulta pertanto inconcepibile. L'idea di una società completamente automatizzata è un sogno da tecnofili (o un incubo da tecnofobi, a seconda della prospettiva).

La narrazione che vede i robot rubare il lavoro alle persone è la narrazione liberista della disoccupazione. Serve a creare un conflitto artificioso tra uomo e macchina, mettendo in secondo piano l'uso capitalistico della macchina e le politiche economiche circostanti. Lo spauracchio dell'automazione viene agitato oggi dagli imprenditori per far passare come inevitabile il bisogno del reddito di base.

La deriva del discorso di Negri

Arriviamo dunque alla conclusione del discorso, mettendo insieme le analisi fatte finora.

Negri arriva alla proposta del reddito di base incondizionato da un percorso logico completamente diverso da quello dei liberisti: se il plusvalore viene estorto ovunque (e non è più calcolabile), allora tutti sono sfruttati e il reddito di base è legittimo. Secondo Negri il reddito di base è una condizione per la ricostituzione di un movimento antagonista. In un articolo intitolato Hamon e il reddito di cittadinanza (Negri, 2017) scrive:

In effetti il reddito di cittadinanza, la sua rivendicazione come la sua messa in atto, possono costituire attivamente in contropotere quella cooperazione sociale e produttiva che il capitale domina attraverso la sua disgregazione in un insieme di gerarchie e di differenze. Inoltre, il reddito di cittadinanza permette, sollecita, forma un fronte comune non solo di lavoratori ma anche dei nuovi soggetti discriminati di razza e di genere – che oggi costituiscono i prismi centrali attraverso i quali si determina la separazione del lavoro vivo cooperante. Questa ricomposizione è necessaria per determinare la sconfitta delle politiche neo-liberali e quindi alla riapertura del patto costituzionale, alla messa in discussione della costituzione materiale e dei rapporti di forza di classe consolidati costituzionalmente.

(per reddito di cittadinanza Negri intende il reddito di base incondizionato, non quello attuale subordinato alla ricerca attiva di un impiego)

Se il plusvalore viene estorto ovunque, anche l'obiezione di Rawls ai surfisti di Malibù viene meno: supponendo che il surfista indossi uno smartwatch impermeabile (con un sensore IOT che monitora posizione e battito cardiaco inviando le informazioni ad un server), tecnicamente la sua attività si configurerebbe come lavoro.

Abbiamo però mostrato formalmente che non è vero che il plusvalore viene estorto ovunque. Abbiamo anche mostrato che il non-lavoro non ha carattere di necessità e pertanto non può essere messo sullo stesso piano del lavoro (a livello di tutele e diritti). Inoltre abbiamo visto, mediante l'analisi del concetto di story-point nello sviluppo del software con metodologia Agile, che il tempo di lavoro è ancora l'unità di misura fondamentale (anche nel lavoro immateriale).

Al di là di tutte le implicazioni morali, l'idea che il reddito di base possa emancipare l'umanità dal lavoro salariato si rivela un'assurdità logica. Facciamo un esempio: supponiamo che il reddito di base diventi realtà, e che ogni mese venga conferita una cifra di 1000 € a tutti i cittadini in modo incondizionato. Se tutta l'umanità decidesse di tagliare il superfluo e vivere grazie al reddito di base, ci sarebbe un problema pratico: nessuno riuscirebbe a spendere i soldi. Anche solo per comprare un sacchetto di mele al supermercato sono necessarie attività di coltivazione, trasporto e gestione del negozio. Ma siccome queste attività sono svolte a loro volta da lavoratori salariati, che a loro volta si sono emancipati grazie al reddito di base, si interrompe la catena della produzione.

Visti anche i risultati degli esperimenti di proto-reddito-di-base svolti in Alaska e Finlandia, non è realistico pensare che tutti smettano di lavorare. Le persone sono ancora intrise di mentalità consumistica e non si farebbero mai bastare il superfluo. Il lavoro salariato è visto anche come mezzo per realizzarsi. Il pigro e l'ozioso, nell'immaginario comune, sono visti con disprezzo (anche miliardari come Buffett o Bezos continuano a lavorare pur potendo vivere tranquillamente di rendita). Quella minoranza di sostenitori che da "sinistra" pianifica di smettere di lavorare grazie all'introduzione del reddito di base, ha in mente un modello di vita parassitario. L'economia non è una macchina a moto perpetuo. Possiamo rigirarla come vogliamo, ma in qualsiasi modo venga finanziata la proposta (erosione del welfare, taglio delle pensioni, tasse sui profitti delle imprese, riduzione dell'IVA) si tratterebbe di vivere sul lavoro di qualcun altro. Chi si illude di poter smettere di lavorare perché "il lavoro fa schifo", non è poi tanto diverso da quei punkabbestia che si illudono di essere "fuori dal sistema" (quando i soldi per vivere e comprarsi la ketamina vengono da chi al "sistema" è ancora dentro). Se poi il reddito dovesse essere successivamente revocato, sarebbe difficile reinserirsi nel mercato del lavoro con competenze ormai obsolete.

Per questi motivi la visione di Negri non sembra sostenibile. In modo esattamente speculare a come il suo internazionalismo (in opposizione agli Stati nazionali e ai nazionalismi di destra) finisce per difendere involontariamente quelle sanguinose politiche economiche di stampo neo-liberista che hanno fatto sorgere i movimenti nazionalisti in Europa, la sua concezione del reddito di base come strumento di emancipazione finisce per difendere involontariamente quel neo-liberismo che il reddito di base dovrebbe (secondo lui) aiutare a contrastare.

Tra gli avversari storici di Negri nel dibattito marxista italiano, spicca la figura di Costanzo Preve. Pur non condividendo le sue invettive contro il Sessantotto, la sua avversione alla critica deleuziana/guattariana/foucaldiana del soggetto, la sua lettura distorta de L'anti-Edipo (che vede le macchine desideranti come un'apologia indiretta del consumismo) e pur non sentendo particolare bisogno di rileggere Marx in chiave idealista, dobbiamo constatare che l'affermazione "Negri è un liberale travestito da comunista" non sembra (in questo caso) andare molto lontano dalla realtà.

Questa non vuole essere una critica totale all'opera di Negri: come pensatore gli vanno riconosciuti valore e creatività e va apprezzato il suo tentativo di portare una ventata di freschezza e attualizzare il discorso marxiano. Moltitudine rimane un libro pieno di spunti interessanti, al netto delle critiche mosse in questo articolo. La lettura ultra-ortodossa del Capitale è pericolosa, perché disabilita lo spirito critico e rende il marxismo più simile ad una religione che ad una filosofia (come succede nel Libretto Rosso di Mao, che è a tutti gli effetti un Vangelo, perché parte dal dogma del trionfo del socialismo e non dalla messa in dubbio dei suoi presupposti). Il modo migliore per affossare il marxismo è non accettare il divenire dei concetti di lavoro, lavoratore, classe lavoratrice e il fatto che l'analisi marxiana possa avere dei limiti significativi.


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La petizione per il reddito di base universale si trova all'indirizzo https://eci-ubi.eu